La grammatica arcobaleno: chi domina il linguaggio domina le coscienze

(Tommaso Scandroglio) La settimana scorsa avevamo riportato due notizie abbastanza simili. Nella prima si descriveva l’iniziativa #ScriviBene, che mira ad «educare» le persone a rivolgersi alle persone transessuali usando un linguaggio rispettoso della loro sensibilità. La seconda riguardava la (ri)proposta della linguista Vera Gheno di adottare una particolare vocale, la scevà, da usarsi nei confronti di «persone non-binarie, ossia che non si identificano né con il maschile né con il femminile».

Notavamo che l’ideologia gender, al pari di qualsiasi altra ideologia, vuole, anche con l’aiuto della lingua, cancellare un mondo a lei sgradito (ad esempio la realtà della sessualità binaria) e vuole crearne uno nuovo. Analizziamo ora questa pars costruens: un mondo nuovo ha bisogno di parole nuove per descriverlo. Tra le molte, tre potrebbero essere le tecniche linguistiche per costruire un universo antropologico mai visto prima.

La prima: inventare neologismi come omogenitorialità, omofobia, omonegatività, eterosessismo, LGBT e LGBTQI+ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali et alia). Neologismi sono anche gli acronimi AMAB o AFAB (assigned male or female at birth) per descrivere la tipologia di transessualità a cui appartiene una persona che vuole “cambiare” sesso, acronimi suggeriti dalla iniziativa, a cui accennavamo prima, #Scrivibene. Neologismo è anche il termine in cui viene elisa la vocale finale sostituendola con un asterisco (*) per indicare un genere grammaticale neutro (ad esempio bambin*) o la parola “zie” usata in alcune scuole inglesi a posto dei pronomi “lui” e “lei”.

Sempre nella galassia della grammatica arcobaleno ricordiamo altri neologismi come pansessuale: soggetto onnivoro di ogni tipo di esperienza sessuale; agender: senza genere; transgender che indica o colui/colei che si percepisce appartenente ad un sesso differente da quello biologico senza però necessariamente voler sottoporsi ad un intervento chirurgico o a trattamenti ormonali (coloro che invece vogliono modificare gli attributi corporei sono i transessuali i quali, quindi, sono anche transgender) oppure colui/colei che non si riconosce in un sesso specifico ma che rivendica comunque l’appartenenza ad un “genere”, seppur variegato e impreciso; asessuati: che non provano stimoli sessuali; bigender: persone che si sentono ora perfettamente maschi e ora perfettamente femmine oppure contemporaneamente maschi e femmine e quindi sono gender fluid; cisgender: sono gli eterosessuali (il neologismo in questo caso produce furbescamente un allineamento dell’eterosessualità a tutte le altre varianti dell’orientamento sessuale). A proposito di neologismi, Facebook ha indicato 57 varianti per indicare l’appartenenza ad altrettanti sessi o orientamenti sessuali, ovviamente inesistenti. C’è da aggiungere che nella foga di inventarsi nuovi termini la stessa comunità LGBT non è sempre unanimemente concorde sull’accezione da attribuire a queste nuove parole e così il significato può variare da commentatore a commentatore. Aggiungiamo infine che i neologismi non indicano solo una nuova realtà, ma spesso portano con sé anche un preciso giudizio morale. Pensiamo a questo proposito al termine “omofobia”.

Una seconda tecnica linguistica utile per la costruzione di un mondo nuovo vede il trasferimento di un termine o di una espressione da un ambito proprio ad un ambito improprio. Un caso paradigmatico è dato proprio dal termine “genere” prelevato dalla grammatica di alcune lingue (come l’inglese o il latino) in cui accanto al genere maschile e femminile troviamo il genere neutro. Prelevare dunque il termine “genere” dal mondo della linguistica e portarlo nel mondo della identità sessuale è stato uno escamotage, ahinoi, efficace perché ha introdotto anche in questo mondo il “sesso” neutro (uno dei primi ad usare l’espressione “identità di genere” fu il famigerato dottor. John Money). E così, come abbiamo visto nell’articolo pubblicato la scorsa settimana, il lemma “genere” ha ormai scalzato la parola “sesso”, troppo legata al binarismo maschio/femmina. Altro esempio di migrazione lessicale ci è dato dalla proposta della prof.ssa Vera Gheno illustrata nell’articolo precedente: usare la vocale scevà presente ad esempio nel dialetto napoletano (“Napulè” che si pronuncia (/Nàpulə/) per indicare «persone non-binarie, ossia che non si identificano né con il maschile né con il femminile».

La terza tecnica linguistica indispensabile per edificare semanticamente una società nuova e un uomo altrettanto nuovo è la persuasione linguistica. Non è sufficiente inventarsi parole nuove, importarle da altri contesti o sostituire quelle vecchie con altre, occorre anche che tali processi linguistici siano accettati dal popolino. A sua volta l’opera di persuasione usa, tra le molte, anche le seguenti strategie linguistiche. Lo slogan: la discorsività di un ragionamento è troppo laboriosa al fine di persuadere qualcuno su qualcosa in modo veloce. Più efficace è comunicare per claim, ossia slogan: messaggi brevi, che “suonano” bene, ma spesso vuoti di significato ad un’analisi solo un poco più attenta. Lo slogan, proprio perché per sua natura è sintetico, è necessariamente ambiguo, allusivo: dice tutto e niente, quindi di suo è difficile da attaccare perché devi spiegare molte cose a monte per smontarlo. Lo slogan è invettiva e quindi è una freccia scoccata al lato emotivo della persona, al suo cuore, al suo immaginario, ai suoi sogni, ai suoi desideri, muove più le emozioni che la ragione; è teso più a persuadere, a suggestionare che a descrivere la verità, più a raccogliere consensi che ad informare o spiegare, più a dare ragione a chi lo grida in piazza che a far ragionare. Ricordiamo ad esempio “Love is love”, “L’importante è l’amore” (riferito alla crescita di un bambino all’interno di una coppia omosessuale), “Alcune persone sono gay, fattene una ragione”.

Altra tecnica: le parole talismano. Alcune hanno un’accezione positiva. Come spiega il filosofo spagnolo Lopez Quintas, le ideologie utilizzano alcune “parole talismano” correlate «da un’aura di prestigio per cui quasi nessuno osa discuterle». È sufficiente accostarle a qualsiasi parola e questa diventa positiva, sono il Re Mida linguistico, sono il passepartout per ribaltare il senso morale di alcune condotte. Pensiamo alle parole “libertà”, “diritto”, “tolleranza”, usate per sdoganare nell’immaginario collettivo l’omosessualità e i relativi comportamenti, la transessualità, i “matrimoni” omosessuali, e la genitorialità a beneficio di coppie gay. Altre parole talismano vengono invece presentate con un’accezione negativa, sono parole velenose. Pensiamo ai termini “reazionario”, “conservatore”, “moderato”, “revisionista”, “discriminazione”, “integralista cattolico” o anche semplicemente “cattolico”, termini o espressioni che di loro non hanno un significato negativo, ma che oggi hanno ormai acquisito invece una coloritura esclusivamente negativa.

Chiudiamo con una citazione di Emanuele Samek Lodovici il quale ebbe a dire: «chi non ha le parole non ha le cose». Declinato nel tema che abbiamo qui trattato significa che il possesso delle parole è possesso delle coscienze e della realtà.

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