Intervista. Parla Serge Quadruppani, la «voce» francese dello scrittore siciliano. «Una lingua non è solo un vocabolario e una sintassi, è un modo di vedere il mondo».
EDIZIONE DEL17.07.2019
Lo scrittore Serge Quadruppani, voce francese di Andrea Camilleri, tempo fa mi ha raccontato, a Parigi, un aneddoto sulla sua ultima telefonata a Camilleri. «L’ultima volta che ci siamo parlati – ha ricordato – è stato quando l’ho chiamato per dirgli che sono sempre stato fiero di essere il suo traduttore e che lo ero ancor di più dopo che lui si è detto disgustato dalla politica di Salvini di respingimenti delle barche dei migranti. Mi ha risposto con i modi burberi che assumeva davanti a parole lusinghiere: «Quando ci vediamo?». E io: «Presto, spero». E lui: «Non vedo l’ora». Purtroppo l’ora non verrà mai più.
Tradurre Camilleri metterebbe ansia a qualsiasi traduttore. Eppure lei ne parla come di un lavoro che affrontato con estrema naturalezza…
Ho imparato l’italiano tardi, dopo aver conosciuto un’italiana, Maruzza Loria. Mentre mi esercitavo con la lingua, mi sono imbattuto per caso in un libro di Camilleri e l’ho letto come leggevo all’epoca questa lingua: avanzando nella giungla di significanti dal profumo enigmatico con l’aiuto dell’immaginazione e del dizionario (e di Maruzza). Posso dire di essere entrato nella lingua italiana e nel mestiere di traduttore in compagnia di Camilleri. Questo spiega perché, quando traduco oggi il «camillerese», quando utilizzo quel francese molto particolare che ho dovuto creare per rendere la sua lingua, mi sento come qualcuno che torna a casa e ritrova forme ed espressioni della vita di tutti i giorni. Ma il «camillerese» non racchiude tutta la lingua di questo scrittore, che in realtà opera, in proporzioni variabili, su tre registri: l’italiano standard, il dialetto e il «camillerese» propriamente detto, ossia un italiano sicilianizzato che è una creazione dell’autore. Nella versione originale o la lingua è abbastanza prossima all’italiano per essere tradotta direttamente, o Camilleri ne fornisce un adattamento. La difficoltà principale si presenta a livello intermedio, quello dell’italiano sicilianizzato, che è poi la lingua del narratore e di molti suoi personaggi. Il «camillerese» è costellato di termini che non sono dialettali, ma sono regionalismi. Di queste parole Camilleri non fornisce la traduzione, perché li colloca in maniera tale che il lettore può coglierne il senso grazie al contesto. Ecco perché i francesi, come gli italiani, possono apprezzare l’estraneità della lingua di Camilleri, riuscendo a comprenderla.
Di Camilleri, più che i romanzi di Montalbano, tornano in mente le opere più eccentriche. Come «La presa di Macallé», con quella sua lingua priapesca, che fa a pezzi l’italietta piccola e provinciale del fascismo con un’ironia devastante. Quell’Italia che, come ha scritto uno dei Wu Ming, sembra sempre pronta a indossare l’Elmo di Scipio, dimenticando però di tenere sotto l’elmo anche il cervello. Quali sono i libri di Camilleri che lei ama di più?
La presa di Macallè è uno dei libri migliori di Camilleri. Poche opere riescono a farci sentire altrettanto bene il ruolo dell’imbecillità nella storia. Quando si rivedono i documentari in cui Mussolini gonfia il petto e irrigidisce la mascella, o quando i giovani fascisti in pantaloni corti sfilano coi loro fez urlando Alalà, ci si chiede come i letterati italiani abbiano potuto accettare e sostenere con entusiasmo il regime. La potenza dell’idiozia è un elemento trascurato negli studi sociali.
Ma ci sono altri libri di altissimo valore letterario nella produzione di Camilleri, come Il Birraio di Preston, dove il vortice di fiamme che brucia il teatro di Vigata si riflette nella costruzione circolare del racconto alimentando la spirale delle diverse lingue italiane. La questione della lingua è al centro della sua opera. Un romanzo come La mossa del cavallo ci fa toccare con mano questa realtà che ha sempre guidato il mio lavoro: una lingua non è solo un vocabolario e una sintassi, è un modo di vedere il mondo.
Camilleri è stato un cantastorie. Uno dei miei ricordi più belli di lui risale a due anni fa, in occasione del suo viaggio a Parigi, dove era stato invitato dall’Istituto italiano di cultura. Era ospite in un hotel assieme alla sposa, la meravigliosa Rosetta (di cui diceva con gioia che era un’estremista alla Robespierre) e al resto della sua famiglia. Considerate le sue difficoltà a muoversi, gli avevano assegnato una camera a piano terra che dava su un cortile. Ci siamo ritrovati in quella corte in una decina di persone, in piedi, mentre lui stava seduto su una sedia, appoggiato al bastone, con la sua coppola in testa, mentre raccontava senza mai finire le sue storie sulla Sicilia…