La nuova edizione di “Orbis pictus”. Cent’anni dopo ci fischiano le orecchie
6 Settembre 2020
Se l’800 ha creduto negli eroi e nei sommi creatori, la cultura del ’900 ha umiliato il soggettivismo in tutti i modi. Contro gli slanci romantici dell’io, ha insistito sulla supremazia dell’inconscio, della società e di altre entità impersonali. Si pensi all’antipatia di Eliot per Shelley, o all’antiumanismo di Heidegger. In una realtà massificata, qualsiasi rivendicazione dell’individuo appare tronfia e velleitaria. C’è chi si compiace sadicamente della situazione; ma c’è anche chi rifiuta il mito del genio che plasma demiurgicamente la materia, un po’ troppo simile a quello dell’imprenditore che vede in ogni cosa uno strumento da piegare ai propri fini, perché ritiene davvero che il nocciolo più prezioso dell’esistenza si possa attingere solo attraverso una specie di passività studiata.
A questa fede è legato il nome di Walter Benjamin. Per comprendere e riscattare i frammenti enigmatici a cui sono ridotti tanto l’esperienza moderna quanto i tesori del passato sconfitto dalla Storia, Benjamin s’impegna in una loro contemplazione “oggettiva”, che rinuncia alla volontà di possesso e all’idea di espugnare la verità imprigionandola in un sistema. Grazie a un atteggiamento analogo, il narratore della “Recherche” recupera nella sua fragranza intatta il tempo perduto. Sia in Proust sia in Benjamin questa “morte dell’intenzione” deriva anche dall’accidia assorbita nell’agio della borghesia nella belle époque. È insieme il segno di un vizio e di una felicità originaria; e ha a che fare con l’incanto di sontuose letture infantili. Entrambi gli scrittori rappresentano stupendamente la maniera in cui i bambini si affidano ai libri con una fiducia illimitata, pur maneggiandoli senza reverenza alcuna. Per Benjamin, i piccoli con le gote chine sulle loro pagine rivelano addirittura un contegno taoista. Ed è la sua tendenza a privilegiare l’attitudine “ricettiva” rispetto a quella “creativa” che lo induce a lodare soprattutto il colore delle illustrazioni, la cui percezione associa all’odorato e al gusto, cioè a quei sensi passivi che gettano una rete proustiana sugli strati più profondi della memoria involontaria.
Traggo l’osservazione da “Orbis pictus”, un libro del 1981, oggi riproposto in versione ampliata dall’editore Giometti & Antonello, che sotto un titolo del pedagogista seicentesco Comenio riunisce sei scritti di Benjamin sulla letteratura infantile, più l’indice della sua collezione di volumi per l’infanzia e una postfazione di Giulio Schiavoni. Negli esemplari di questa letteratura, l’autore apprezza una categoria di testi trascurata dalla concezione capolavoristica dell’arte, e lasciata ancora ai margini del mercato. Come certi oggetti esaltati dai surrealisti, i libri dedicati ai bambini prefigurano un mondo “dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili”. Quando nascono, nell’età illuminista, sono appena una “variante del catechismo”. Ma Benjamin non disprezza questa rozzezza didattica. Lo infastidisce invece la pretesa recente d’immedesimarsi nel bambino, il quale “chiede all’adulto una rappresentazione chiara e comprensibile, ma non infantile”, e “meno che mai ciò che l’adulto è solito considerare tale”. Purtroppo gli autori, persa la potestà pedagogica, si rivolgono sempre più ai lettori passando per “l’impura mediazione” delle mode – una mediazione a cui si deve anche quel romanzo “per la gioventù” che Benjamin, come la nonna della “Recherche”, considera un prodotto artificioso.
Cent’anni dopo ci fischiano le orecchie: cos’altro sono, infatti, gli albi da stilisti e le collane junior che fino a ieri si concentravano annualmente alla Fiera di Bologna, se non un deposito di leziosità per adulti bamboleggianti? Ma se Benjamin si sofferma con più gusto sulle icone schematiche degli incunaboli, è anche perché rimandano a uno dei suoi motivi dominanti. Alcuni di questi articoli risalgono alla metà degli anni 20, cioè al periodo in cui stende il trattato sulle allegorie del dramma barocco tedesco: e vi s’ipotizza che le illustrazioni dei volumi per l’infanzia siano collegate appunto all’emblematica del tardo Rinascimento, o comunque alla “combinazione di tipo ideografico di oggetti allegorici”. Sfiorando un tema tipico del 600, poi ripreso dalle teorie novecentesche del linguaggio, gli abbecedari mostrano l’alfabeto che sorge da una scrittura figurata. Benjamin, simile ai piccoli lettori, vi si addentra come se fossero un paesaggio, e al tempo stesso ne fa un uso spericolatamente libero. Mentre sembra non staccarsi mai dalla pagina, di cui segue docile i contorni, elabora una metafisica e la espone in termini perentori. E’ il metodo che lo porterà a concepire un’opera di sole citazioni, ossia sommamente antiromantica, composta “colorando” col suo sguardo i testi altrui, e trasferendo così nella letteratura la prassi del collezionista. In apparenza la vocazione antiquaria di Benjamin contrasta con il suo entusiasmo per le tecniche novecentesche. Ma in realtà in gioco è sempre il “nuovo”, nel senso della possibilità inesplorata: come i nascenti mass media, la reliquia negletta del passato si proietta nel futuro in cui vorrebbe trovare finalmente il suo posto.
La felicità di questo teologo paradossale e materialista, un po’ kafkiano e un po’ brechtiano, sta nello scoprire che la storia non è già scritta; ma qui è anche la radice dell’angoscia. Proprio da una canzoncina d’infanzia viene una figura ambigua che ha accompagnato Benjamin per tutta la vita: l’omino gobbo, che simboleggia la deformità del destino e insieme indica la speranza messianica in un mondo nel quale i frammenti dell’esistenza spezzata possano riunirsi. Così gli albi di “Orbis pictus” rappresentano sia una promessa d’integrità umana sia la condanna alla sua mancanza. Come diceva Adorno, la società moderna ci mette davanti a un aut aut atroce: o crescere conformandosi al suo funzionamento o restare bambini. Pochi l’hanno scontato più del suo grande amico.
Matteo Marchesini