Un gruppo di linguisti locali ha il compito di tenere la lingua islandese al passo coi tempi, per evitare che scompaia.
Il Post 8 GIUGNO 2019
Una delle conseguenze meno raccontate della globalizzazione riguarda il linguaggio. Da quando siamo esposti costantemente a stimoli provenienti dal resto del mondo, è aumentato il bisogno di individuare e imparare lingue franche come l’inglese o lo spagnolo, che permettano di capirsi a prescindere da dove proveniamo. Per contro, le lingue tipiche di un solo paese o addirittura di un’unica comunità sono sempre più trascurate: secondo alcune stime nei prossimi decenni moriranno fino a duemila lingue, parlate perlopiù nelle periferie della civiltà.
Una delle più famose fra le lingue considerate a rischio è l’islandese, un lontano nipote del norvegese, parlato soltanto da 340mila persone che abitano un’isola più vicina alla Groenlandia che al resto d’Europa. Gli islandesi però, a differenza di altri popoli, hanno sempre avuto una vivacissima comunità letteraria, e grazie alla lingua islandese hanno costruito un pezzo rilevante della propria identità: in passato, «essere un buon poeta era tanto importante quanto essere un buon guerriero», ha raccontato di recente un ricercatore islandese a Quartz. Nel 2019, gli stessi sforzi per tenere in vita la lingua islandese non sono affidati a omoni armati di asce, ma a uno specifico dipartimento dello stato.
Il Dipartimento della Pianificazione del Linguaggio occupa l’ufficio di un istituto culturale non distante dal centro di Reykjavík, la capitale del paese. Il compito dei linguisti che ci lavorano è quello di tenere la lingua islandese al passo coi tempi: in sostanza, devono inventare una parola per ogni nuovo oggetto o concetto importato in Islanda. Come in ogni ufficio si lavora a gruppi, ognuno con le sue competenze: c’è la commissione che si occupa di inventare parole per l’industria informatica, per quella della pesca, o altri campi in cui l’innovazione impone di continuo nuove parole e concetti. Anni fa le nuove parole venivano pubblicate sui quotidiani, oggi esistono piccoli glossari cartacei e la versione online del dizionario.
L’esigenza di pagare qualcuno che si occupasse di tenere vivo l’islandese è ormai piuttosto radicata. Sin dai primi del Novecento, cioè da quando l’isola si è aperta al commercio internazionale, gli islandesi dispongono di un vocabolario messo insieme da linguisti pagati dal governo: la prima edizione era pensata per poter stare nel taschino di una giacca da uomo e «doveva insegnare agli islandesi le nuove parole da usare per descrivere i prodotti stranieri come i cereali da colazione», scrive Quartz.
Oggi la situazione è molto diversa, e per certi versi opposta a quella di un secolo fa. La progressiva apertura del paese ha fatto sì che la maggior parte degli islandesi, anche quelli anziani, parli molto bene l’inglese e passi facilmente da una lingua all’altra all’interno della stessa conversazione (aiutati dal fatto che entrambe le lingue discendono dall’antico dialetto germanico).
Il rovescio della medaglia è che per i giovani islandesi la lingua dell’isola è sempre meno necessaria: videogiochi, libri e serie tv non vengono doppiati, al massimo sottotitolati, e da alcuni anni sull’isola atterrano ogni anno centinaia di migliaia di turisti, con cui l’inglese è una delle poche lingue franche. Si stima che un terzo degli islandesi dai 13 ai 15 anni parli in inglese con i propri amici.
Alcuni islandesi poi guardano con sospetto e timore al fatto che ad esempio i principali assistenti vocali per la casa non siano disponibili in islandese – anche se il Dipartimento ci sta lavorando – e in passato avevano accusato Microsoft di volere «distruggere» gli sforzi dei linguisti locali quando si era rifiutata di tradurre il sistema operativo Windows in islandese. Una lingua nazionale ancora viva, hanno spiegato i linguisti del Dipartimento a Quartz, è tanto essenziale per la sovranità del paese quanto le strade che collegano i paesini lontani dalle città principali.
Ad alcuni può sembrare una battaglia reazionaria, ma il Dipartimento potrebbe obiettare che in fondo il loro obiettivo è mantenere l’islandese adatto al mondo di oggi, e quindi più proiettato verso il futuro che legato al passato. Una delle dirigenti del Dipartimento, Ágústa Þorbergsdóttir, cita poi un’altra ragione, più romantica, per cui vale la pena preservare l’islandese: ogni lingua si porta dietro sfumature e concetti che non esistono altrove, e che per la loro unicità sono insostituibili. In islandese, per esempio, esiste una parola per descrivere i minuti che precedono di poco l’alba: Sauðljóst, che letteralmente significa «quel momento della giornata in cui la luce è appena sufficiente per distinguere le pecore».
In concreto, il Dipartimento inventa nuove parole riutilizzando quelle già esistenti, e magari passate di moda. «L’idea è che utilizzando le radici [cioè i pezzetti di parola che si portano dietro i significati fondamentali, come ved- per vedere, visione, video, eccetera] del linguaggio di arrivo, comprendere i nuovi concetti diventa più facile», ha spiegato a Quartz uno dei linguisti del Dipartimento che si occupa del dizionario, Johannes Sigtrygsson. In islandese la televisione si chiama sjónvarp, un termine che mette insieme due parole antiche che significano «visione» e «lanciare», sjón e varp, e che in pratica esprimono cosa succede dal punto di vista fisico quando l’oggetto-televisione entra in funzione.
Non sempre funziona. Il primo dizionario islandese suggeriva ad esempio di chiamare la banana bjúgaldin, cioè “frutto curvo”, ma al suo posto ha preso piede la più intuitiva banani. Più in generale, i linguisti ritengono che la diffusione delle lingue vada di pari passo con altri fattori culturali, e che imporle in maniera artificiosa sia complicato.
In seguito alla conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni, nel 1066, il francese diventò la lingua ufficiale del regno inglese, ma si diffuse soltanto fra le élite: è per questa ragione che nell’inglese moderno le parole che derivano dal francese sono piuttosto rare (e alcune potrebbero essere arrivate direttamente dal latino). Più di recente, invece, è andato a buon fine il piano del movimento sionista per resuscitare l’ebraico negli anni precedenti e successivi alla fondazione dello stato di Israele, avvenuta nel 1948, dopo che per secoli era rimasto una lingua morta.
«Se anche tutte le aziende di tecnologia del mondo accettassero di tradurre tutto in islandese, esiste un problema di tipo umano: i giovani islandesi devono avere voglia di parlare islandese, e devono avere almeno una ragione per continuare a farlo nel loro paese», conclude Quartz.