“Scuola di demoni”. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti
2 Giugno 2019
E’ stata una buona idea quella di mettere in piedi un libro a due facce, intervistando a esaurimento due narratori di oggi che non hanno niente in comune e vedere l’effetto che fa. L’idea è stata della Minimum fax, l’intervistatore è Carlo Mazza Galanti, gli scrittori intervistati sono Michele Mari e Walter Siti, autori di cui ogni tanto si parla come dei pochi a cui riconoscere indubbia originalità, vero valore letterario e la capacità di non risultare effimeri.
Naturalmente si potevano scegliere anche altre coppie di opposti: Ermanno Cavazzoni e Antonio Moresco, Elisabetta Rasy e Antonio Debenedetti, Franco Cordelli e Wu Ming… Comunque, l’esperimento è andato bene. Mari è lo scrittore che ama il fantastico e la letteratura al quadrato, la letteratura letteraria. Siti è o passa per essere il narratore realista per eccellenza, anche se indaga la realtà in cerca di metafisica. Ma infine che cos’è la realtà? Esistono tante realtà quanti sono gli autori che la inventano a misura propria. Un individuo che sogna e fantastica e si sente invaso da fantasmi del passato, se parla di questo parla di realtà, della sua: inventerebbe se si mettesse a scrivere sulle vicende di un uomo d’affari che vive di calcoli.
Il bello della letteratura, rispetto per esempio alla filosofia, è di essere un universo incorreggibilmente pluralistico, un mondo di individui, un mondo fatto di molti mondi. Anche leggendo questo dittico, “Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti”, ci si rende conto di quanto sia difficile la convivenza, la coabitazione di scrittori, narratori o poeti, all’interno di uno stesso habitat letterario: è come vedere accanto non solo rinoceronti e scimmie, ghepardi e giraffe, ma anche orsi polari e colibrì.
Comincio da Michele Mari, che conosco poco sia di persona che come autore. La prima cosa che noto e che lui ci tiene a sottolineare, dolente o fiero, sono le proprie molte idiosincrasie. Il fatto di non essere normale, di non aver vissuto una vita normale, di non viverla né volerla vivere, è la sua forza (quella su cui conta) e il suo alibi. Una cosa, fra le altre, mi sembra tuttavia molto comprensibile: sugli scrittori che ama di più non riesce a scrivere. Sono poche le eccezioni: Gadda, Landolfi e Manganelli. La letteratura che predilige e che lo ha reso uno scrittore è fatta quindi di precise, violente, testarde, spettacolari, idiosincrasie, amori e avversioni incontrollabili, anche se irragionevoli.
Fra le molte, ne noto una che mi riguarda e che forse è tipica di certi iracondi accecamenti di Mari. Parlando della neoavanguardia e del Gruppo 63 dice: “Mi dava fastidio quell’ansia di decretare la morte della narrativa, la morte del romanzo, la morte dell’invenzione. Che è quello che mi dà fastidio anche in Berardinelli per esempio, e mi vien da dire ma pensate per voi, se in voi è morta bene, fate altro. Mi sembra un alibi, una volontà di liquidare un’intera e gloriosa tradizione con una fretta burocratica”.
Queste righe, per quanto riguarda me, sono così cariche di frettolose imprecisioni che non posso ringraziare Mari di essersi ricordato di me. Dal momento che di me sa e ha letto così poco o male, avrebbe fatto meglio a dimenticarmi, non perdeva niente. Mettermi insieme alla neoavanguardia è pura disinformazione o voglia di farmi un dispetto. Romanzo, narrativa, invenzione non sono mai morte negli autori in cui vivono, lo sono in coloro in cui sono assenti e che scrivono solo perché hanno liquidato nella loro testa “un’intera e gloriosa tradizione”. Io non do precetti e non prescriverei a nessuno l’uso della “gloriosa tradizione”. Ogni scrittore faccia modo suo quello che sa fare meglio e lo faccia bene. Contano i risultati e sui risultati di un ventennio di romanzi italiani qualche valutazione si può fare. Se io “non incoraggio il romanzo” è perché vedo che sono troppo pochi coloro che riescono a scriverne uno. Il romanzo oggi incoraggiato, e così denominato dagli editori, è quasi sempre merce editoriale.
Con Walter Siti mi sento più a mio agio perché, da decenni, lo conosco di persona e lo leggo. Ora noi due e Giorgio Manacorda facciamo insieme perfino una rivista, “L’età del ferro”, che la Castelvecchi ha l’eroico coraggio di pubblicare. Personalmente con Walter ho in comune poche cose ma forti: le origini sociali umili o basse (lui in provincia di Modena, io a Testaccio), la cultura vissuta come fede, sfida e rivalsa, e due autori assolutamente militanti, legati e antitetici come Fortini e Pasolini: nel senso che la realtà o il nostro istinto ci ha presto costretti a procedere oltre, usandoli e vedendone i limiti sia storici che caratteriali. Ma Walter ha studiato alla Normale di Pisa, tra Mario Fubini (metrica e poesia) e Francesco Orlando (teoria freudiana della letteratura), io a Roma fra Giacomo Debenedetti (il romanzo del Novecento) e Guido Calogero (la dialettica dialogica). Sono stato uno dei primi a leggere il dattiloscritto del suo primo romanzo, “Scuola di nudo”, e ne ho recensiti altri tre.
Anche Walter è un groviglio di idiosincrasie (omosessuale “fuori dal coro”) ma da queste ha ricavato una filosofia sociale e morale, su queste ha costruito romanzi realistici, o forse pararealistici perché, come dice lui stesso, per inventare letterariamente ha sempre bisogno di uscire dalla letteratura, di toccare fisicamente e sentir parlare la realtà: quella attuale, impregnata di finzioni, falsificazioni, recite. Dice: “I miei romanzi sono sempre stati degli organismi impuri, che fagocitavano materiali extraletterari”. Eppure ha sempre avuto “bisogno di non perdere di vista l’assoluto (…) Il realismo è soprattutto spiazzamento e mistero”. Come dire che la realtà, vista da vicino, è molto più fantasiosa e sorprendente delle nostre costruzioni fantastiche.
Però Walter confessa che della realtà gli manca una cosa, anzi gli manca una metà: “Mi mancano le donne, mi manca un rapporto reale con le donne. Cioè con quella che sta diventando una parte sempre più importante della società contemporanea (…) La sento come una deprivazione, anche in termini creativi”. Solo un narratore che non può fare a meno del mondo reale può avere questa onestà e curiosità. Anche un poeta come Auden, che una volta scherzando si definì “omosessuale sciovinista”, scrisse in una poesia contro Platone che il nostro mondo di quaggiù “è un tale spasso perché l’essere umano è diviso in maschi e femmine”… Con tutte le innumerevoli conseguenze del caso.