Nicola Zamperini Giornalista 22/03/2019
“Mendel dei libri” è un romanzo breve di Stefan Zweig, in cui assistiamo alle prove generali dell’abiura della ragione, alle prove compiute della follia come orizzonte, del nazionalismo, dei confini invalicabili e della guerra come soluzioni politiche, della diffidenza come metodo e della cultura come spazio angusto e sospetto.
“Mendel dei libri” è del 1929, e racconta la storia di un bibliofilo impenitente nella Vienna al tempo della Prima Guerra Mondiale, Jacob Mendel, e della sua vita trascorsa quasi interamente seduto a un tavolo di marmo del caffè Gluck.
“Una delle persone più singolari, un uomo leggendario, isolata meraviglia del mondo, celebre all’università e in una ristretta ossequiosa cerchia”.
Un personaggio incredibile e dedito a una magnifica ossessione, quella per i libri.
“Questi libri, Mendel non li leggeva cercando di coglierne il significato, il loro contenuto spirituale e narrativo: erano soltanto il titolo, il prezzo, la veste editoriale, il frontespizio ad accendere la sua passione”.
Mendel è un piccolo rivenditore galiziano cui una ristretta cerchia di accoliti e iniziati si rivolge per ottenere informazioni su testi rari, volumi introvabili. Egli riceve il suo variegato pubblico di studiosi e appassionati seduto al tavolo del caffè Gluck, e da lì dispensa notizie preziose, mette a disposizione una memoria infinita, offre la sua conoscenza sconfinata quasi esoterica.
A un certo momento però la guerra sconvolge l’esistenza di Jacob come quella di milioni di europei. Per una serie di coincidenze, di fortuiti casi della vita potremmo dire, ma soprattutto per il suo essere insensatamente straniero, non solo di nascita ma anche nelle strane relazioni che intrattiene con il prossimo, finisce per due anni in un campo di prigionia.
Della vita nel campo Zweig evita di raccontare i dettagli, lasciando che sia il lettore a galleggiare in un sentimento di pena per il povero Jacob. Quando Mendel torna a Vienna non è ovviamente più la stessa persona di prima, e allo stesso modo, la città, le persone, il caffè e il suo proprietario, e infine le sue abitudini non sono più quelle di prima.
“La rozza coscienza della nuova epoca” non perde tempo a fare i conti con il vecchio Jacob che da straniero, in breve, diventa anche estraneo alla sua stessa città, e al caffè in cui ha lavorato per molti anni.
Un romanzo, come si dice, straordinariamente attuale (tutti i buoni romanzi lo sono, basta saper cercare le tracce del presente). Intanto perché mette il dito nella piaga della follia e dell’avversione contro lo straniero, accusato e colpevole di essere nato in un altro Paese, e per questa semplice ragione condannato senza alcuna formalità. Condannato a essere espulso dalla città, dalle abitudini, dai luoghi di incontro, dalle relazioni e dalla vita di prima, e infine a essere rinchiuso in un recinto con altri simili a lui.
La vicenda di Mendel descrive anche una delle prime e più semplici violenze che si possono perpetrare quando l’abiura della ragione prende il sopravvento su tutto, e cioè la violenza sulla cultura. Non c’è bisogno di arrivare al rogo dei libri o alla distruzione delle statue, che per quanto azioni odiose sono sempre sintomatiche di una patologia ben più grave, e cioè dell’odio verso gli uomini di cultura, verso le persone che hanno innalzato quelle statue e che quei libri hanno scritto, o più semplicemente letto o molto amato.
Non solo gli intellettuali, non solo i dissidenti dunque, non soltanto chi alza la propria voce contro il potere o il potente, ma anche chi – rinchiuso nel suo isolamento – chiede esclusivamente di poter continuare a dedicare la propria monacale, intera, esistenza allo studio. A un qualche studio.
“Mendel dei libri” mostra la violenza contro un uomo mite cui è sufficiente perdere gli occhiali, il giorno in cui è tratto in arresto, per perdere buona parte della sua forza e della sua intraprendenza. Forse anche della sua umanità. Una volta terminata la guerra, “l’atroce cometa di sangue nella sua folle corsa”, la definisce con un’immagine perfetta Zweig, gli occhiali di Mendel rimarranno per sempre appannati. E così i suoi occhi che “dovevano aver visto cose terribili in quello stabbio di uomini recintato di filo spinato”.
Questo per dire che non si torna mai più indietro, nessuno riguadagna l’innocenza dopo che viene precipitato in un campo di internamento qualsiasi, nell’entroterra della Cirenaica come nelle vicinanze di Kormano, nella Libia del 2019 come nell’Austria del 1918.
A dirla tutta, oggi Kormano è in Slovacchia, a ricordarci che i confini e l’essere stranieri subiscono rapidi processi di invecchiamento e trasformazione, semmai è l’essere confinati che non smetterà mai di rimanere uguale a sé stesso.
Il racconto di Zweig spicca per un’altra ragione. Perché isola e registra una particolare specie di concentrazione che, una volta raggiunta, cancella la realtà circostante. Una forma di astrazione purissima dal mondo grazie alla quale il piccolo “rivendugliolo galiziano” era arrivato a eccellere, come nessun altro, nella sua materia. Concentrazione affascinante se la osserviamo oggi nell’era della continua distrazione.
“Grazie a lui – spiega il narratore – mi ero accostato per la prima volta al grande mistero, ovvero che tutto ciò che nella nostra esistenza è straordinario ed elevato viene raggiunto solo attraverso un raccoglimento interiore, attraverso una sublime ossessione simile, nella sua sacralità, alla follia”.
Mai definizione è stata più limpida. E nella sua limpidezza Zweig illumina anche il fatto che una tale forma di ossessione può affascinarci, ma come tutte le ossessioni fa perdere ogni contatto con la realtà. Non un vero amore per i libri potremmo dire, ma una fissazione, una mania che distacca chi la subisce dal mondo.
Della sua mania Mendel resta vittima perché non gli fa capire cosa sta accadendo intorno e nel mondo, il risultato è che la magnifica ossessione finisce con lui. In realtà, sembra suggerire Zweig, aver rinunciato a ospitare nel mondo questo particolare tipo di essere umano comporta una perdita netta per l’umanità intera: quando gli occhiali di Mendel si appannano, l’intera umanità smette di vedere bene.
Per evitare di perdere quelli come il vecchio Jacob, e dunque per evitare la perdita netta che potrebbe sopportare l’umanità, non bisogna aver timore di ospitare il diverso, lo straniero, che a sua volta potrebbe sorprendentemente ospitare forme inedite, meravigliose e innocue di ossessione.
Scrive Zweig del “diritto di ospitalità sacro persino ai tungusi e agli araucani”, e che “nulla è più insensato, superfluo e per questo moralmente imperdonabile che il raccogliere e ammassare dietro il filo spinato civili ignari”. Dietro il filo spinato o su una nave alla deriva, fa poca differenza.
Mendel dei libri è un piccolo romanzo che si legge nel breve lasso di un weekend, appartiene però – come molti altri – alla categoria delle storie che ci restano attaccate per una vita intera.