Il suo fan più accreditato svela vita e opera del genio Alla luce della madre e dei traumi della guerra…
Luigi Mascheroni – 03/02/2019
Jerome D. Salinger combatté una silenziosa battaglia, dal punto di vista psicologico, affine a quella del suo personaggio più celebre, il giovane Holden Caulfield, un outsider che si ritrova intrappolato in un mondo materialistico, volgare e ipocrita. Aveva un’alta considerazione del proprio lavoro e una bassissima per chi lo metteva in dubbio.
Da un certo momento in poi cominciò a pensare che la scrittura fosse l’equivalente della meditazione (e che la fama, i fan e la pubblicità nutrissero l’ego, non lo spirito). E soffriva pesantemente di depressione, fino a essere incapace di relazionarsi agli altri. In più non tollerava si parlasse di lui invece che dei suoi libri, e trovò la serenità solo quando smise, non di scrivere, ma di farsi leggere: «C’è una pace meravigliosa nel non pubblicare».
Bene. Di per sé la biografia di Salinger potrebbe finire qui. Il resto è pura accademia, poco interessante, note a margine… Ma stiamo parlando dello scrittore che con un pugno di racconti e un romanzo – cioè: il romanzo – ha cambiato la rotta della cultura americana. E in più siamo nell’anno del centenario (J.D. Salinger nacque a New York il 1° gennaio 1919 in una famiglia della borghesia ebraica che nutriva grandi ambizioni). Quindi è buona cosa, almeno giornalisticamente, ripensare a chi fosse J.D. Salinger e che cosa abbia rappresentato Il giovane Holden per noi lettori, per la letteratura, per il ‘900, e magari farlo da un punto di vista diverso dal solito (la critica, l’accademica o il pettegolezzo…) e sulla base di nuovi documenti. Ed eccola l’occasione: la biografia di Kenneth Slawenski Salinger. La vera storia di un genio (Newton Compton, pagg. 432, euro 12; in libreria dal 7 febbraio), un libro imbevuto della passione dell’autore per l’opera dello scrittore, ma senza sentimentalismi e che, pur esaltando l’eredità letteraria del «genio», non gli concede sconti sul piano personale. L’arte e la vita, la vita come opera d’arte, l’arte coincide o no con la vita? Siamo sempre lì.
Siamo qui, tra la biografia e le opere. Kenneth Slawenski è un appassionato più che un critico, ma il suo sito (www.deadcaulfields.com) è stato riconosciuto dal New York Times come la migliore fonte di notizie in rete su Salinger. E il suo libro, che aggiunge molti dettagli alla vita dello scrittore, è stato un bestseller negli Stati Uniti, è tradotto in venti Paesi ed è alla base del biopic in lavorazione a Hollywood con Nicholas Hoult e Kevin Spacey. Ma – ecco la domanda – cosa c’è ancora da dire su Salinger? In realtà molto, per i fan ma anche per gli studiosi e i semplici lettori. E il lavoro di Slawenski, con una grande varietà e ricchezza delle fonti, aggiunge parecchio soprattutto sugli anni della seconda guerra mondiale (si insiste molto sul trauma lasciato da quel periodo) e svela anche una serie di aneddoti divertenti – e significativi della personalità dello scrittore – del lungo addio, gli anni di reclusione volontaria a Cornish: il disprezzo per foto, pubblicità, ristampe; la leggenda nera degli attentatori di Lennon e di Reagan che avevano in tasca Il giovane Holden; la voce secondo la quale Thomas Pynchon in realtà era uno pseudonimo di Salinger… Nel complesso un’ottima biografia che affianca quelle di Ian Hamilton, di Paul Alexander e dello sceneggiatore hollywoodiano Shane Salerno. Ex pluribus, un unicum. Ovvero, il caso J.D. Salinger.
Non è un caso, nota Kenneth Slawenski, che Salinger divenne un fantasma per il mondo. Non lo è se si pensa alla rigida riservatezza dei genitori del piccolo Sally. E non è un caso che ebbe chiaro fin da subito che la sua narrativa fosse qualcosa di diverso, di assoluto. Salinger fiorì sotto le attenzioni della madre, e le fu molto legato per tutta la vita (non così col padre, il quale infatti non credette mai davvero nel talento del «ragazzo»), tanto da dedicarle Il giovane Holden: Miriam Salinger (nata Marie Jillich) era convinta che il figlio fosse destinato a grandi cose, convinzione che lui finì col condividere, e poi amplificare. «Quando si considera la carriera di Salinger, in particolare i primi anni, bisogna distinguere tra ambizione e sicurezza. Era senza dubbio molto sicuro di sé, ma quando questa convinzione veniva meno era sempre l’ambizione a tenerlo in piedi», e Dio solo sa quanto ne ebbe bisogno agli inizi, visti i numerosi rifiuti da parte delle riviste cui mandava i suoi racconti, molti dei quali andati smarriti. E poi c’è la passione per il teatro fin da studente: a Salinger, che a scuola non andò mai particolarmente bene, anzi… interessavano soprattutto la letteratura e la recitazione. E fu più un accidente che una scelta, alla fine, a trascinarlo sulla prima strada invece che sulla seconda.
Ciò che invece non fu accidentale, ma inevitabile, fu il riflesso che le esperienze di Salinger durante la guerra ebbero sul suo lavoro. Secondo Slawenski gli anni del conflitto, tra il 1942 e il ’45, lasciarono dentro il sergente Salinger profonde ferite psicologiche, forgiando ogni aspetto della sua personalità e riflettendosi nei suoi scritti. Quando si leggono i suoi racconti è buona cosa ricordarsi che: Salinger con il 12º reggimento di fanteria degli Stati Uniti partecipò allo sbarco ad Utah Beach nel D-Day, sfiorò la morte nella ferocissima battaglia della foresta di Hürtgen, si fece tutta la battaglia delle Ardenne (quando conobbe Ernest Hemingway, allora corrispondente di guerra da Parigi), fu assegnato al servizio di controspionaggio (silenzio, riservatezza, mistero, privacy… un’ossessione), fu tra i primi soldati a entrare in un campo di concentramento liberato dagli Alleati, un sotto-campo di Dachau, e alla fine della guerra fu ricoverato in ospedale per quello che oggi si definisce un disturbo da stress post-traumatico. Stando a una lettera scritta a un amico, nel giorno della resa dell’esercito tedesco Salinger restò seduto sul suo letto, con una pistola in mano, chiedendosi come sarebbe stato spararsi nel palmo sinistro: una scena che anticipa lo sconvolgente finale del suo racconto forse più celebrato, A Perfect Day for Bananafish. E poi c’è quel famoso dialogo nel racconto Last Day of the Last Furlough, uscito nel ’44 su The Saturday Evening Post in cui un personaggio, Babe, dice: «Io credo che sia dovere morale di tutti gli uomini che hanno combattuto in questa guerra tenere la bocca chiusa, quando sarà finita, e non parlarne mai più, in alcun modo». Vi ricordate l’addio di Holden, nel romanzo che porta il suo stesso nome? «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque». Pensava ai suoi compagni d’arme morti?
Di ritorno a casa, Salinger iniziò a uscire con le ragazze, a ri-vivere, ma aveva difficoltà a trovare «un posto normale» nella società. Si trasferì nel Connecticut e da lì, mentre inanellava relazioni e matrimoni sbagliati, il suo isolamento fu graduale, e poi totale. Rafforzò le sue credenze religiose (il buddismo zen), scrisse per diverse riviste («quasi sempre storie di persone molto giovani», come appare in un trafiletto di una rivista che ospitò una sua storia), entrò nella famiglia del New Yorker (il gotha della narrativa) e, mettendo mano a un groviglio di racconti discontinui scritti a cominciare dal 1941, completò Il giovane Holden, uscito nel luglio 1951. Che contribuì – con 60 milioni di copie vendute nel mondo – a definire la psiche della cultura americana per diverse generazioni. Quello che avvenne dopo (la pubblicazione dei Nove racconti nel ’53, Franny e Zooey del ’61, anno in cui Time mise Salinger in copertina, e Alzate l’architrave, carpentieri del ’63, tutti libri che raccoglievano racconti già apparsi in precedenza su rivista, fino al disastro di Hapworth 16, 1924 del 1965, la sua ultima uscita pubblica) è solo un’appendice alla mistica inaccessibilità che si creò attorno all’autore, il cui risultato è noto come «il culto di Holden».
Dopo, fino alla morte nel 2010, il vecchio Salinger continuò nel segreto di un bunker nel New Hampshire a condividere coi propri personaggi – a partire dal giovane Holden Caulfield, che non dimenticò mai, come idealizzazione della Giovinezza – speranza, salvezza e dolore. Tenendo, però, tutto per sé. Che è il massimo dell’egoismo, dal punto di vista del lettore. Ma il massimo della dedizione, dal punto di vista dell’autore. Si chiama Letteratura.