In che modo la tecnologia sta influenzando, e per certi versi addirittura soppiantando, la cultura umanistica? E perché da mezzo utile a tutti i saperi umani sta diventando un fine? A Pordenonelegge queste domande sono state al centro del dialogo tra Lorenzo Tomasin, professore di Filologia romanza e di Storia della lingua italiana, e Juan Carlos De Martín, professore al Dipartimento di automatica e informatica al Politecnico di Torino, a partire da L’impronta digitale (Carocci, 2017), un agile saggio scritto dal professor Tomasin che esplora l’impatto delle nuove tecnologie su istruzione, ricerca e politiche culturali.
Noi linguisti in generale abbiamo un rapporto un po’ ambiguo con la tecnologia: non possiamo farne a meno nella vita e nel lavoro quotidiani, però ne abbiamo un certo timore (l’ombra della traduzione automatica aleggia su di noi!); sappiamo che ci offre tantissime opportunità, dalla localizzazione agli strumenti per l’insegnamento delle lingue, ma può sottrarci il piacere di creare prodotti “di qualità artigianale”; ci serve per tenerci in contatto e aggiornati quando tendiamo a isolarci, ma ci ruba moltissimo tempo e concentrazione. Insomma: mi interessava approfondire questo rapporto dialettico e altalenante tra linguisti e tecnologia, e l’incontro L’impronta digitale ha offerto tantissimi spunti in questo senso (e non solo).
Per dare ulteriore corpo a questa ricchezza di stimoli, Linguaenauti ospita il professor Tomasin, che ci regala il suo punto di vista su alcune questioni che riguardano tutti noi linguisti del XXI secolo.
A Pordenonelegge ha sottolineato come oggi la cultura dominante sia quella tecnologica, da alcuni considerata una sorta di “latino del XXI secolo” per l’importanza culturale che ha assunto. Pensa che il linguaggio tecnologico stia diventando una lingua comune vera e propria, che esclude dal progresso chi non è in grado di parlarla?
Chi ha proposto l’immagine del “latino del XXI secolo” (l’ingegnere direttore di un importante Politecnico svizzero) non pensava tanto al linguaggio tecnologico, quanto alle conoscenze informatiche nel loro complesso che, secondo lui, danno oggi accesso al potere e alla ricchezza come avrebbe fatto un tempo il latino. Ora, è ben vero che il latino poteva costituire un requisito per l’accesso a posizioni di potere, ma il senso della sua centralità nel sistema educativo non era certo questo. Chi oggi propone un sistema basato sul predominio delle tecniche (non più delle scienze o delle conoscenze) utili a fare qualcosa – e in particolare a conquistare le leve di ricchezza e potere – ha evidentemente un’idea di cultura che è quello caratteristico della mentalità tecnologica. Ed è all’opposto della mentalità scientifica e umanistica sulla quale abbiamo costruito i nostri valori di civiltà.
Citando Panofsky ci ha ricordato che l’umanista “è colui che contesta l’autorità e rispetta la tradizione”. Secondo lei, quale autorità e quale tradizione si trovano di fronte gli umanisti, o aspiranti tali, di oggi? E come possono contestare la prima rispettando la seconda?
Il modello culturale oggi dominante, martellato da un’insistente propaganda tecnocentrica che mitizza la rivoluzione informatica ed emargina il ruolo dell’attività intellettuale e speculativa non ancorata alla tecnologia, rappresenta oggi uno dei più potenti strumenti di condizionamento mentale. Tale modello culturale, tra l’altro, nega il valore della tradizione in nome di un’idea rozza e quasi violenta del progresso, che considera il passato inutile e il solo presente degno d’attenzione. È contro questa autorità che oggi la cultura umanistica può (e secondo me deve) esercitare la propria funzione di critica, di de-mitizzazione, e di smascheramento. È lo stesso spirito che spinse i pionieri della rivoluzione scientifica a contestare i dogmatici modelli scolastici: in un certo senso, per rovesciare la provocatoria frase da cui siamo partiti, l’aristotelismo e il geocentrismo dei nostri tempi sono costituiti dal presentismo dominante nella cultura tecnologica e dall’idea che – come è stato scritto in un famoso articolo uscito qualche anno fa su Wired– il diluvio dei dati rende obsoleto il metodo scientifico e l’elaborazione teorica.
Nel corso della sua discussione con Juan Carlos De Martín ha commentato l’uso ormai diffusissimo dell’inglese come lingua unica, veicolo della contemporaneità, affermando che non riesce a immaginare “come un mondo che parla una sola lingua possa essere migliore di un mondo che ne parla cinque o sei”. In che modo il plurilinguismo è un valore, in un contesto che va verso la semplificazione comunicativa a tutti i costi?
L’affermazione di un modello rigidamente monolingue (solo inglese) nel dibattito scientifico, nella produzione intellettuale e nella pratica dell’insegnamento rappresenta uno dei sintomi più preoccupanti dell’oscurantismo odierno e della rozzezza culturale delle classi dirigenti. La pluralità delle lingue nel dibattito intellettuale – che crea, certamente, difficoltà pratiche e ostacoli, ma favorisce anche la maturazione di punti di vista diversi, di legami con una molteplicità di tradizioni, insomma di una vera pluralità culturale – viene percepita (soprattutto dai tecnologi e dai tecnocrati) come nulla più che un fastidioso contrattempo, che è necessario eliminare per concentrarsi sugli aspetti puramente tecnici, i quali peraltro richiedono non una vera lingua universale, ma il simulacro impoverito e azzoppato di una lingua: è l’inglese dei tecnici, spesso stravolto e ridotto a larva di una lingua. Possiamo davvero rischiare di andare verso un mondo in cui quella lingua divenga l’unico veicolo del dibattito scientifico?
Tra i traduttori si discute, a volte con entusiasmo e spesso con timore, dell’avanzare dell’intelligenza artificiale e in particolare degli strumenti di traduzione assistita e automatica. Pensa che in una disciplina come la traduzione l’impronta digitale arriverà mai a sostituire quella umana?
In questo come in molti altri casi, molto dipende dall’atteggiamento con cui ci si pone di fronte alla risorsa tecnologica: se si assume un punto di vista tipicamente umanistico ed ecologico (perché basato sulla sostenibilità delle scelte), la tecnologia può aiutare il plurilinguismo sostenendolo e rafforzandolo, e valorizzando il lavoro – comunque insostituibile – della traduzione umana, che è un lavoro culturale prima e più che semplicemente tecnico. Se invece si concepisce la tecnologia nel modo tipico in cui l’ha concepito la tradizione ingegneresca, cioè come uno schiacciasassi utile solo a spianare la strada a un malinteso progresso, si rischia di fare del linguaggio ciò che tecnica e tecnologia hanno fatto del paesaggio, dell’ambiente e di tanti aspetti della vita sociale: un campo di battaglia disseminato di danni talora irreversibili. Che nel caso delle lingue consistono nella distruzione della diversità culturale, nell’impoverimento delle risorse linguistiche, nella morte delle lingue o nel loro abbassamento a dialetti in via d’estinzione.
Dall’incontro di Pordenonelegge è emerso come nel XXI secolo il mondo umanistico e quello tecnologico non siano in realtà contrapposti o legati rispettivamente al passato e al futuro, come spesso vengono percepiti, ma necessariamente complementari e contemporanei. Da professore di filologia, che consiglio può dare ai ragazzi che si sentono attratti dagli studi umanistici ma temono di rimanere tagliati fuori dalla cultura tecnologica oggi così dominante?
Il consiglio è quello di non farsi ammaliare da mode e retoriche dominanti ma effimere. Qualche decennio fa, un grande fascino aleggiava su facoltà e percorsi di studi che, essendo stati concepiti in modo troppo ancorato ad un tornaconto immediato e irresponsabile, sono presto decaduti divenendo emblemi di pratiche inquinanti, o economicamente fallimentari, o distruttive e perciò superate. Gli studi umanistici (veri), come quelli scientifici (veri), sono sottratti a questa sorta di razzìa culturale, che oggi attraversa la tecnologia presentandola come la chiave del futuro, mentre al massimo servirà a porre le basi per i problemi – e forse i disastri – di un domani abbastanza vicino. Per poi forse cadere nella desuetudine e nel discredito generale.
Lorenzo Tomasin è dal 2012 professore ordinario di Storia della lingua italiana, e dal 2014 di Filologia romanza presso l’Università di Losanna. Autore di un centinaio di articoli scientifici e una decina di volumi, codirige una Storia dell’italiano scritto pubblicata da Carocci, di cui sono usciti finora tre volumi (2014). Contributore regolare delle pagine letterarie del Sole-24ore e del Corriere del Ticino, è esperto per la letteratura in lingua italiana della Pro Helvetia Stiftung (Zurigo) e membro della Giuria dei Letterati del Premio Campiello Letteratura. Per Carocci ha pubblicato nel 2017 L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia.