Lo ammetto: non conoscevo Wole Soyinka, scrittore e drammaturgo nigeriano premio Nobel per la letteratura nel 1986. Ma il bello dei festival letterari in generale e di pordenonelegge in particolare è anche questo: ti permette di scoprire e di conoscere da vicino autori rimasti fuori dal tuo radar… e che autori! In questo caso mi incuriosiva molto che uno scrittore africano, di lingua madre yoruba e profondamente legato alla propria cultura di origine, fosse considerato uno dei massimi autori di lingua inglese; e se a questo si aggiunge il fatto che il suo romanzo più noto in Italia si intitola Gli interpreti (da poco ripubblicato in Italia da Jaca Book) capite bene quanto fossi curiosa di andare a sentire cos’aveva da raccontare.
Così mi sono intrufolata alla sua conferenza stampa, nella bella mansarda di un edificio del centro città, pronta a conoscere da vicino questo anziano signore dalla folta chioma bianca e dallo sguardo assorto e… ho trascorso la prima mezz’ora a tentare di elaborare una domanda che riguardasse il suo rapporto con la lingua yoruba e l’inglese, mentre lo ascoltavo incantata parlare dell’Africa, con i suoi problemi millenari e le sue meraviglie umane, e del bellissimo concetto di restituzione, che dovremmo abbracciare noi occidentali dopo aver depredato il continente per secoli (e di cui ha parlato, sebbene in altri termini, anche Beppe Severgnini).
Fortunatamente una giornalista è venuta in mio soccorso ponendogli la domanda a cui stavo goffamente cercando di dare una forma: dopo una bella introduzione sulle sue esperienze di scrittore e attivista per i diritti umani gli ha chiesto come mai scrivesse in inglese, una lingua imposta dall’alto, che non rappresenta la cultura yoruba e anzi l’ha schiacciata, invece che nella sua lingua materna. Era proprio quello che volevo sapere e ho atteso trepidante la sua risposta, soprattutto dopo aver ascoltato Luis Sepúlveda, che considera il castigliano la sua vera patria (l’unica che l’esilio non ha potuto sottrargli), e Carlos Ruiz Zafón, interessato ai meccanismi delle lingue tanto da definire la traduzione “una matematica della parola”. Ebbene, dopo aver sentito queste dichiarazioni d’amore alla lingua, devo ammettere che le parole di Wole Soyinka mi hanno letteralmente spiazzata. Perché lui ha sorriso divertito e ha risposto così:
Nel mio paese, la Nigeria, si parlano più di trecento lingue. E dico lingue, non dialetti. Quindi quale lingua ci rappresenta? Per quanto mi riguarda lo yoruba è la lingua che sento per le strade, nelle case, che parlo in famiglia; ed è vero, l’inglese ci è stato imposto e ci ricorda il nostro passato coloniale. È un tema di cui si discute molto in Africa, ma in realtà la lingua in sé è solo una convenzione che non ha alcun significato; l’inglese dopotutto è utile, perché è una lingua franca accessibile a tutti e che ci permette di comunicare tra noi. Anche se definirla semplicemente inglese è un po’ riduttivo, perché in realtà in Africa tutti usiamo una lingua pidgin a cui aggiungiamo qualcosa delle nostre lingue tribali. Io ho scritto la maggior parte delle mie opere in inglese e ho scritto teatro in yoruba, perché era più naturale. Ma non è così importante; a volte mi ritrovo a leggere Shakespeare e a chiedermi: “Un momento, questo è inglese o yoruba?”. La lingua è un mezzo flessibile, con cui gli artisti possono mess around (visto il modo in cui l’ha detto oserei tradurre con pasticciare).
Insomma, vi assicuro che questa risposta è stata davvero sorprendente e mi ha dato un punto di vista completamente inaspettato sulla “questione della lingua”, che per Soyinka va ben al di là di lessico e sintassi. Non per niente i cinque interpreti del suo romanzo non sono linguisti, ma giovani intellettuali formatisi in Europa che, all’indomani dell’indipendenza della Nigeria, tornano in patria e tentano di rileggere la società del loro paese alla luce delle esperienze vissute in Occidente. Insomma: la lingua non serve, o non basta, perché la realtà, come insegna la cultura tradizionale africana, non si percepisce con le parole.
Guarda qui la video intervista a Wole Soyinka
E tu, sei d’accordo con Sepúlveda o con Soyinka? Consideri la tua lingua una patria o solo un mezzo per comunicare?
Wole Soyinka è uno scrittore, drammaturgo e attivista nigeriano di etnia yoruba, formatosi in Nigeria e in Inghilterra. Ha esordito nel 1960 con l’opera teatrale Danza della foresta e ha proseguito con la scrittura di testi teatrali in cui la tradizione yoruba si mescola alle influenze occidentali, dalla tragedia greca a Shakespeare. Ha scritto diversi saggi di critica letteraria sulle manifestazioni culturali africane e un diario dal carcere, L’uomo è morto (1972), che racconta i due anni trascorsi in cella d’isolamento per essersi schierato contro la guerra del Biafra. Ha insegnato in numerose università, fra cui Yale, Cornell, Harvard, Sheffield e Cambridge, e nel 1986 gli è stato conferito il premio Nobel per la Letteratura. A pordenonelegge ha ricevuto il premio Crédit Agricole Friuladria “La storia in un romanzo” «per aver saputo raccontare il sostrato mitico della realtà africana con la coscienza di un autore profondamente immerso nella cultura europea novecentesca».
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