L’universo del lavoro freelance è sempre più di attualità tra Millennials e non: se ieri il lavoro autonomo era marginale e poco considerato, oggi… continua a essere poco considerato, ma in compenso i numeri parlano da soli: l’Italia detiene il record dei lavoratori freelance su scala globale (siamo ben 3,6 milioni! Per maggiori dati leggi qui). E benché spesso si dica, anche a ragione, che noi freelance tendiamo all’individualismo e all’atomizzazione, è evidente che emerge sempre di più la voglia di condividere le nostre vite “in libertà condizionata” e in particolare le difficoltà che dobbiamo affrontare quotidianamente, spesso senza nessuno con cui confrontarci. In questo panorama spicca più di altri un problema che riguarda tantissimi giovani freelance, in stragrande maggioranza donne: quello della gestione di lavoro e famiglia, dal punto di vista tanto pratico quanto emotivo. Perché, come abbiamo discusso anche qui su Linguaenauti, se la conciliazione è un problema di tutti i lavoratori, per i freelance (e in particolare per le mamme) assume aspetti molto più sfuggenti, sfaccettati e ancora poco approfonditi.
Ecco perché un libro come Mamme con la partita IVA. Come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro (Sonzogno, 2018) ci mancava davvero. L’autrice è Valentina Simeoni, antropologa trentacinquenne, insegnante di lingue e mamma di Nora dal 2016. In questo saggio il suo sguardo professionale sul tema della maternità freelance riesce a tirare le fila di esperienze, umori e rivendicazioni che negli ultimi anni hanno trovato uno spazio di discussione sui social e si sono tradotti in nuove tutele per gli autonomi, sebbene dal punto di vista culturale resti ancora molto da fare per capire a fondo il mondo freelance. Le interviste alle mamme raccolte nel libro raccontano di donne alle prese con modalità di vita e lavoro totalmente diverse dal passato, con nuove competenze (come il famoso multitasking) e con sentimenti antichi (starò dando abbastanza a mio figlio?). Esperienze in cui tutte noi possiamo riconoscerci, e su cui tutti dobbiamo riflettere per imparare a interpretare il mondo del lavoro di oggi e di domani.
Raccontaci la genesi di Mamme con la partita IVA: com’è nata e come si è sviluppata l’idea di raccogliere le esperienze delle lavoratrici autonome divise tra lavoro e maternità?
Mi interesso da sempre di storie, da qualche anno di storie di gravidanza e maternità: fino al 2017, però, le avevo sempre osservate, raccolte e studiate dall’esterno (in particolare da quella specialissima fonte che sono i social media, e ancor più in particolare da Facebook), cioè con l’occhio etnografico che avevo sviluppato negli anni della mia formazione antropologica e durante le mie ricerche sul campo. Frequentando il mondo della scrittura narrativa, nel frattempo, avevo conosciuto Giulio Mozzi, che fra le altre cose lavora come consulente editoriale presso Marsilio. Proprio nel 2017 la casa editrice Sonzogno, un marchio facente parte appuntodel gruppo Marsilio, ha pensato a una pubblicazione sul tema “maternità e libera professione”. Poiché l’intento era quello non solo di informare, non solo di denunciare, ma anche e soprattutto di raccontare questa particolare dimensione della maternità dall’interno, eppure in modo non semplicemente soggettivo, Mozzi ha pensato a me: che oltre a fare ricerca sulle narrazioni, e oltre a essere una libera professionista, nel frattempo ero diventata anche mamma. Nel progetto editoriale che ho proposto a Sonzogno, ho avuto modo di unire dunque la mia esperienza alle mie competenze, ed è una cosa che mi ha dato grandissimi stimoli e soddisfazione.
Il tuo libro ritrae tante donne che, pur nell’incertezza, riescono a trovare le risorse per costruirsi una vita piena, senza rinunciare a sogni e aspirazioni un tempo inconciliabili: un lavoro che piace, una famiglia e una maggiore elasticità nella conciliazione di questi due importanti aspetti della vita. Quali qualità e punti di forza hai constatato nelle donne che hai intervistato?
Senz’altro la grinta, la determinazione, la forte passione per il lavoro che fanno o stanno cercando di fare o vorrebbero fare: una passione che si alimenta anche dell’esperienza della maternità, e in qualche modo la nutre a sua volta. Inoltre – ma questo oggi è fondamentale – una certa capacità di adattamento e la disponibilità sia all’attesa (intesa non solo come gravidanza, ma anche come tempo da dedicare ai propri figli spostando in avanti, quando serve, la realizzazione dei propri obiettivi professionali) sia alla riformulazione di sè come professioniste, recuperando, sviluppando o portando al centro delle competenze che prima, magari, erano ai margini della propria sfera professionale. L’esempio più immediato è quello di una mamma che faceva l’insegnante di yoga e la formatrice e adesso tiene corsi di yoga per donne in gravidanza o yoga mamma-neonato e scrive di questi stessi argomenti.
Linguaenauti in passato ha toccato il tema dei genitori freelance e della percezione sociale dei freelance, sottolineando quanto questa modalità di lavoro sia spesso sottovalutata, soprattutto quando si svolge tra le mura di casa. Quali sono secondo te le maggiori difficoltà e frustrazioni che più affliggono le mamme freelance?
Sono difficoltà innanzitutto pratiche, e te le riassumo con un esempio tratto proprio dalle storie che ho raccolto. Se io lavoro da casa, significa che una certa parte della casa è il mio “luogo di lavoro”: nel mio caso, un luogo fisso anche se ristrettissimo; per altre, uno spazio che varia di volta in volta; in ogni caso esso, per funzionare in quanto tale, deve avere delle caratteristiche minime, fra le quali per molte di noi rientra una certa dose di ordine e pulizia. Ma la casa in cui vive una famiglia con uno o più bambini piccoli difficilmente sarà in ordine. Lavorare in un contesto disordinato, tuttavia, può interferire in modo molto forte con la capacità di concentrarsi, fino a impedirla del tutto. La mamma che lavora da casa, dunque, spesso sente che dovrebbe prima di tutto sistemare la casa (con un evidente sforzo sia mentale che fisico e un grosso investimento di tempo) e solo dopo potrà mettersi al lavoro, arrivandoci già stanca e probabilmente con pochissimo tempo residuo per portare avanti la sua attività: perché i bimbi dormono per un intervallo non prevedibile, o comunque a una certa ora tornano dal nido o dalla materna, e quindi lavorando da casa sia lo spazio che il tempo sono, per una mamma freelance, una risorsa limitata e preziosissima.
Insieme a questo, c’è appunto la percezione sociale distorta che nel senso comune si ha non tanto dei, quanto soprattutto delle freelance: l’idea che quello svolto “da casa” non sia dopo tutto un vero lavoro, ma una specie di passatempo dal quale queste donne possono staccarsi quando e come vogliono per occuparsi di cose ben più urgenti come le faccende domestiche. Un lavoro di serie B, insomma, perché in fondo in fondo, nella visione odierna, siamo ancora saldamente ancorati all’idea che il “lavoro” sia «quella cosa che si fa “fuori casa” e da cui si “torna a casa la sera”, quell’attività che viene dichiarata aperta e chiusa dal beep di un contatore elettronico e svolta in un ambiente ben specifico» (p. 250), altro da quello domestico. Questo si traduce spesso in frasi, atteggiamenti e richieste che finiscono per interferire con il lavoro svolto da casa, rendendolo ancor più intermittente e faticoso.
Il Jobs Act del lavoro autonomo (legge 21/2017) ha fatto grandi passi avanti nel riconoscimento di tutele per i lavoratori freelance, anche se molto rimane ancora da fare. Quali sono le esigenze principali delle donne (e per estensione di tutti i lavoratori autonomi) che emergono dalla tua indagine, e quali misure si dovrebbero prendere secondo te?
Restando sul tema centrale del libro, al momento manca un accesso più equo e facilitato all’indennità di maternità, che risulta di fatto precluso a chi nell’ultimo anno ha fatturato meno (a causa, per esempio, di una gravidanza a rischio) o ha da poco aperto la partita IVA (i contributi versati in altri regimi fiscali sono persi per sempre); sarebbe poi auspicabile una differenziazione, in termini di indennità appunto, delle gravidanza gemellari, come avviene per le lavoratrici dipendenti; ci vorrebbero procedure più snelle e trasparenti nel calcolo dell’indennità stessa e impiegati INPS capaci di fornire consulenza sul caso, sempre più frequente, delle freelance iscritte alla gestione separata che hanno adottato regimi fiscali di vantaggio; manca anche, al momento, il riconoscimento dell’indennità di paternità per i lavoratori freelance in sostituzione a quella della mamma: essa viene riconosciuta, infatti, soltanto in casi molto particolari, mentre per fortuna i papà possono usufruire del congedo parentale.
Infine, puoi svelarci quali sono le storie che ti hanno toccato di più in questo lungo viaggio nel mondo delle mamme freelance, e per quali motivi?
Sono affezionata a tutte queste storie e alle mamme che le hanno condivise con me. Quelle che mi hanno toccata di più, però, sono le storie delle mamme che, almeno per ora, hanno scelto di ridimensionare o fermare la propria attività lavorativa per dare spazio e tempo ai figli, di solito perché il loro lavoro da freelance a un certo punto non risulta più conciliabile – se non a carissimo prezzo – con l’accudimento di uno o più bimbi piccoli.
Ed è proprio qui che emerge, forse, la questione più importante in assoluto: quali condizioni (materiali, economiche, logistiche, sociali) vengono a mancare loro tanto da portarle a questa decisione? Per esempio, ed è il caso di una storia molto forte che per motivi di privacy mi è stato chiesto di non inserire nel libro, il supporto e la collaborazione di un partner che metta sè stesso, il proprio ruolo di padre e il proprio lavoro sullo stesso piano della neomamma, dividendo davvero con lei il carico mentale e fisico della genitorialità. Nel caso a cui mi riferisco, la mamma lavorava con partita Iva in collaborazione con l’università nella quale il compagno era invece uno strutturato: sottraendosi giorno dopo giorno al suo ruolo domestico, lui di fatto, anche se indirettamente, ha eroso le possibilità che lei aveva di continuare a lavorare, dato che l’università è un ambiente molto competitivo nel quale la presenza fisica, cioè la cosiddetta “visibilità” (in dipartimento, ai convegni ecc.) è fondamentale.
In ogni caso, anche nella decisione di fermarsi, magari per un periodo o magari per sempre, io ho avvertito in tutte queste donne una tenacia e una resilienza che mi hanno sorpresa, rincuorata e molto spesso commossa.