Tradurre non è tradire, ma è l’arte di fare le scelte giuste

Dario Ronzoni

Un lavoro prezioso ma che passa inosservato. Un esercito di detective selvaggi a caccia della giusta soluzione, un mondo a metà tra l’artigianato dell’esperienza e l’arte dell’intuizione. Con un occhio alle esigenze editoriali del mercato.

Un mestiere di vivere. Nei casi più difficili, anche di sopravvivere. Molto spesso sottovalutato, a volte ignorato e perfino dimenticato. Eppure quello del traduttore è un lavoro prezioso, per la cultura e la sua diffusione. In Italia ci sono più o meno duemila professionisti. Ma è un calcolo approssimativo, dal momento che non ci sono né ordini né albi e nemmeno la partita Iva. C’è un sindacato (Strade). Il resto è un via vai selvaggio di contrattazioni con gli editori, notti passate a rispettare le deadline e un continuo confronto con parole ed espressioni straniere, con risultati anche molto creativi.

È un’arte? È una tecnica? «È più simile all’artigianato», spiega Laura Cangemi, traduttrice da inglese e svedese, che vanta collaborazioni con case editrici come Iperborea, Mondadori, Feltrinelli, Marsilio, Neri Pozza. «C’è una parte di creazione, ma all’interno di un percorso deciso da altri»: al traduttore resta il compito di «fare scelte, parola per parola, frase per frase», per trasportare nella lingua di arrivo l’effetto della lingua iniziale. Come nelle botteghe di una volta, «è un mestiere che si impara solo con la pratica, traducendo e traducendo».

Il suo percorso comincia nella metà degli anni ’80, con un libro Iperborea e un romanzo per bambini dallo svedese per Mondadori. La letteratura per l’infanzia è «più difficile di quanto si pensi. Somiglia alla poesia». Qui i giochi di parole sono importanti, a volte fondamentali. Lei stessa, per rendere un’espressione particolare («a volte sono parolacce») ha dovuto stravolgere il testo, perfino cambiare il nome dei personaggi. «Elsa, per poter entrare in un gioco di parole un po’ volgarotto anche in italiano, è dovuto diventare Gerda». Tutti possono intuire perché.

E così, consultato l’autore («molti diventano amici. E a volte noi traduttori diventiamo una sorta di scout, o agente, selezionando le case editrici più adatte ai loro romanzi»), sentito il parere dei colleghi («non per comprendere il testo originale, ma per elaborare una resa più efficace») il testo viene approvato. E il lavoro del traduttore, non visto, scorre sotto il naso del lettore. «A volte leggo complimenti da parte di recensori alla musicalità di un certo autore, e mi vien da ridere», perché il merito, semmai, «è di chi lo ha tradotto».

È un punto importante: al lettore (non forte) spesso manca la consapevolezza di quanto una buona traduzione possa influire sulla percezione che riceve dell’opera. Nella maggior parte dei casi, non nutre nemmeno «diffidenza nei confronti del lavoro del traduttore», spesso visto come mera riproduzione meccanica da una lingua all’altra.

È un errore. Oltre che il punto di partenza di una ricca tradizione teorica sul tema. Per Franco Buffoni, importante poeta, accademico e traduttore, che dirige dal 1989 al rivista sulla traduzione poetica “Testo a fronte” la classificazione gerarchica tra testo originale e testo tradotto va superata. Il suo lavoro si concentra sulla poesia, ma vale «per tutti i testi scritti con finalità estetiche» (per cui esclude il giallo di bassa lega, o i manuali) Originale e traduzione sono alla pari, per cui anche alla seconda spetta dignità autonoma di testo. Il risultato è che tradurre, insomma, «è arte».

Buffoni si posiziona al termine (e forse anche alla dissoluzione) di una millenaria tradizione sul tema, basata sulle «dicotomie» che da sempre imprigionano la traduzione poetica, che vanno superate.

Quali siano queste dicotomie, è facile dirlo: fedele e infedele, ut orator e ut interpres, traduzione dei poeti e traduzione dei professori, tradimento e aderenza. Per riassumerle a colpi di accetta, c’è la posizione che bada al senso letterale, e cerca di restituirlo a scapito della forma, e quella che bada allo stile e alle suggestioni del suono, sacrificando parte del resto. Formalismo ed estetica. È una lettura che, di base, nega la traducibilità della poesia. Ogni cosa, nel momento in cui viene tradotta, perde una parte di sé.

Buffoni non è d’accordo. «Non esiste l’intraducibilità», semmai «esistono diversi livelli di difficoltà nella transculturalità», e dipendono cioè «da quanto divergono le civiltà culturali», nella lingua, nella cultura, nei riferimenti. I testi sono lontani, ma il compito del traduttore è quello di avvicinarli. Soprattutto, non deve «riprodurre» un testo, che è termine fuorviante, ma «farlo fiorire e rifiorire». Così concilia le due tendenze, apre a una nuova lettura del processo traduttivo e, soprattutto, gli conferisce dignità.

L’unico limite reale, sembra indicare, è l’intelligenza e la sensibilità del traduttore. Non valgono nemmeno i caveat delle recenti teorie sull’appropriazione culturale. «Chi può tradurre un testo? È una vexata quaestio. Alcuni sostenevano che i veneziani potessero tradurre meglio le commedie veneziane di Shakespeare. Ma l’affinità, magari geografica, può essere tranquillizzante, anche se non basta di sicuro». È un aspetto molto più profondo.

Il caso di scuola è la traduzione del Processo di Kafka affidata a Primo Levi da Einaudi. «In linea di massima il ragionamento che aveva portato ad affidare a lui quel lavoro era corretto: un grande scrittore per un grande scrittore, in più Levi conosceva il tedesco e soprattutto aveva vissuto quello che Kafka preconizzava».

Risultato? «Una pessima traduzione», perché «i due si trovavano su versanti filosofici diversi, visto che per Kafka l’universo del Processo era un fatto ineluttabile, mentre Levi, razionalista ateo e illuminista, rifiutava questa lettura. Non ha tradotto, ha litigato con il testo».

Per discendere a livelli più terreni, le difficoltà del traduttore sono spesso altre: di natura monetaria, di tempo a disposizione (spesso pochissimo), di scarse tutele e anche di mentalità generale.

Come spiega la traduttrice Isabella Zani, molti considerano questa attività «il lavoro delle mogli dei colonnelli», cioè persone benestanti che leggono e traducono per diletto. In realtà è un mondo più complesso e frastagliato, dove il percorso formativo è eterogeneo («solo con la riforma del 3 +2 del 1999 si sono introdotti corsi di traduzione, ma tenuti da professori, che hanno scarsa esperienza del mercato») e la continuità, anche nel rapporto con il committente, molto instabile.

Per non parlare delle diverse tipologie di testo da affrontare: «Quelli più difficili, può sembrare strano, sono gli autori mediocri». Il traduttore – forse è l’unico trait-d’union – è sempre un lettore forte, «e sa cogliere le marche stilistiche nel testo, quelle che Umberto Eco chiamava “l’intenzione del romanzo”. Un bravo scrittore sa manipolare la scrittura con consapevolezza, e lo si può vedere. Le sue soluzioni hanno un significato e un obiettivo e il traduttore lo coglie, indirizzando la sua resa nella stessa direzione».

Gli scrittori mediocri «no. Hanno un uso sciatto della lingua, con ripetizioni di parole e concetti. Questo obbliga a fare scelte drastiche, spesso al limite dell’editing, che però non possono essere nemmeno troppo migliorative».

Il dilemma è quello del salumiere (che faccio, lascio?) e si affaccia a ogni costrutto banale, ogni soluzione deludente, ogni espressione piana e senza colore. Ma anche quello è un lavoro che qualcuno deve pur fare.

A questo proposito merita un accenno anche l’ambito, laterale, della corrispondenza. Alice Farina, capo della comunicazione per la casa editrice Il Saggiatore, è anche traduttrice dal russo. Il suo prossimo lavoro riguarda le lettere di Fedor Dostoevskij: non un testo letterario, insomma, «ma tutta un’altra cosa». Forse non più difficile, anche se «le parole sono state scritte con la certezza che nessuno, a parte il destinatario, le avrebbe lette. Per questo sono piene di errori, imperfezioni, sottintesi, correzioni. Bisogna fare apparire tutto questo senza sembrare un traduttore sciatto, impreciso, imperfetto e contraddittorio». Una bella, ennesima sfida.

In questo panorama complesso, a metà tra l’arte e l’artigianato, c’è un ulteriore elemento che spicca: la competenza specialistica. È il criterio alla base, per esempio, delle scelte di NR edizioni, che affida la resa in italiano dei suoi testi di nonfiction a giornalisti, esperti in materia.

«Questo non vuol dire che non apprezziamo il lavoro dei traduttori professionisti, tutt’altro», spiega Gianluca Di Tommaso, il fondatore. «Anzi, presto ci serviremo anche di loro per i nostri testi». In generale, l’orientamento è quello di cercare stili di scrittura simili, «da parte di personalità che conoscono benissimo il tema in questione».

È per questo che, per esempio, «il libro di Joe Biden – che abbiamo tradotto alla fine del 2018, prima che fosse nominato candidato alla Casa Bianca, “Papà, fammi una promessa”, è stato affidato al giornalista del Post Francesco Costa, che su quei temi – e anche sulla figura stessa di Biden, un personaggio singolare nel panorama politico americano – aveva già fatto importanti approfondimenti».

Non solo: i criteri nelle scelte di traduzione variano anche a seconda del target: «I libri destinati a un grande pubblico, come quello di Biden, prevedono anche una cura specifica delle note del traduttore, per rendere immediati anche i concetti più distanti». Quelli pensati per segmenti più specifici «ad esempio i Millennial, a cui ci siamo principalmente rivolti con “Trick Mirror” di Jia Tolentino», invece no. «Sappiamo che hanno l’abitudine di cercare ciò che non conoscono su Google», cosa che non si può dare per scontata per tutti.

È il punto di vista editoriale. Forse non è l’arte della resa poetica, ma comanda, e di fatto dirige tutte le operazioni all’obiettivo finale: il lettore. Il quale, scorrendo le pagine, dovrà diventare più consapevole che c’è tutto un mondo di detective selvaggi che, per lui, ha cercato per ore e giorni le soluzioni migliori ai rebus della lingua.

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