“Se vogliamo essere liberi torniamo a leggere i classici”

Eleonora Barbieri 31/01/2019

Nuccio Ordine, grande esperto di Giordano Bruno, professore di Letteratura italiana all’Università della Calabria, visiting professor a Yale, alla New York University, alla Sorbona, al Max Planck di Berlino, fellow a Harvard e alla von Humboldt, direttore di tre collane di classici in Francia (Les Belles Lettres) e dei Classici della letteratura europea di Bompiani, dopo L’utilità dell’inutile e Classici per la vita (entrambi usciti prima in Francia), ora dedica un terzo libro alla sua grande passione.

Il titolo, Gli uomini non sono isole (La nave di Teseo, pagg. 334, euro 15), cita la più famosa delle Devozioni per occasioni di emergenza di John Donne, del 1624, la stessa che ha ispirato a Hemingway il titolo Per chi suona la campana. La struttura è quella del libro precedente: brani scelti da testi di autori classici, seguiti da un commento (non lungo). Aristotele, Rilke, Plutarco, Nietzsche, Ariosto, Erasmo, Bruno, Celan, Woolf, Montaigne, Pascal, Vico, Saint-Exupéry…

Perché, come dice il sottotitolo, I classici ci aiutano a vivere?

«È una lunga battaglia, di un professore che insegna da molti anni… I classici non hanno grande fortuna, né nelle scuole, né all’università. Si leggono soprattutto dei manuali, ed è un errore: è difficile che uno studente si innamori dell’Orlando furioso leggendo un riassunto, o un saggio. Per innamorarti del Furioso, devi leggerlo».

Perché i classici non si leggono più?

«Perché la scuola e l’università sono proiettate al mondo del mercato. Gli studenti studiano per ottenere il diploma o la laurea, da spendere nel mercato del lavoro, ma così si perde la funzione del sapere, che ci aiuta a essere buoni cittadini, persone colte che sanno vivere nel loro tempo».

I classici…

«… non si studiano per l’esame, o per la laurea, ma perché ci insegnano della vita, ci spingono a riflettere sui grandi temi, anche del presente».

E i professori?

«Io insegno al primo anno del triennio. Perché, come dice Bruno nel Candelaio, la vita è come abbottonare i bottoni della camicia: se sbagli il primo sono sbagliati anche tutti gli altri. Agli studenti del primo anno, ogni volta chiedo: che cosa siete venuti a fare?».

Risposta?

«A prendere la laurea. E io: no! All’università si viene per diventare migliori, uomini e donne liberi, perché la libertà è nella capacità che abbiamo di leggere autonomamente e criticamente il mondo in cui viviamo».

A proposito di professori, nel libro c’è la lettera, bellissima, scritta da Camus quando riceve il Nobel per ringraziare il suo professore delle medie.

«Da dieci anni la leggo agli studenti, e ogni volta mi commuovo. Il giorno in cui vince il Nobel, Camus pensa alla madre, analfabeta, che è stata il suo sostegno; e a quel prof delle medie che gli disse di fare il concorso per il liceo ad Algeri. E che andò a casa sua per convincere la madre e la nonna, visto che il padre era morto in guerra. Lui sa che la sua vita è stata cambiata dall’incontro con quell’uomo. E questo è il compito di un professore. Ma oggi, nelle scuole, non interessano più queste figure».

Chi interessa?

«Vogliono un prof manager-burocrate, che dedichi la vita a compilare carte e a trovare soldi per le strutture. Se poi fa una lezione brutta, pazienza. Invece una brutta lezione è un crimine».

I rischi quali sono?

«Un genio come Einstein smentiva questi signori, che dicono che bisogna specializzarsi fin da piccoli. È sbagliato, perché uccidi la curiositas, che alimenta la fantasia e l’immaginazione. Senza di esse non c’è creatività e, senza creatività, non ci sono né scienza, né tecnologia. Un suicidio programmato della cultura. Le scienze umane e della natura devono entrambe difendersi dall’utilitarismo».

Lei insegna anche all’estero. È diverso l’approccio ai classici?

«Purtroppo l’appiattimento è globalizzato. Solo nelle aree più depresse il sapere resta una possibilità di capire e di riscattarsi. Come il liceo classico da noi, che è sempre stato un ascensore sociale. Io sono nato a Diamante, provincia di Cosenza: negli anni ’60 non c’era una biblioteca, non c’era una libreria. Non c’era neanche la scuola elementare».

E dove ha studiato?

«Fino alla quarta, in casa della maestra, che affittava una stanza allo Stato. Quando era ammalata, si alzava e veniva a farci lezione in vestaglia. A casa mia non c’era nemmeno un libro».

Dirige collane in Italia e in Francia. L’editoria valorizza i classici?

«Ne dirigo anche in Brasile, in Romania, in Bulgaria, e poi sono responsabile delle traduzioni di Bruno in Cina e in Giappone… Oggi il problema è che per lo più l’editoria ha chiuso le grandi collane di classici o, comunque, ha molto rallentato le pubblicazioni. Se volesse leggere il De remediis utriusque fortunae, un’opera importante di Petrarca, in Italia non troverebbe né un’edizione critica, né una traduzione integrale».

Perché succede?

«Gli editori non puntano più sui classici: l’editoria guarda al mercato, e diventa finanza. Io sono fortunato con la collana di Bompiani: sto proponendo cose uniche, come il primo Don Chisciotte e il primo Montaigne bilingue del mondo».

I classici vanno letti in originale?

«Di sicuro bisognerebbe provarci. Ma soprattutto ai giovani non si deve instillare solo il monolinguismo dell’inglese, oltretutto di livello basso: dovrebbero misurarsi con le grandi lingue della cultura d’Europa».

Perché il titolo, Gli uomini non sono isole?

«Mi preoccupa vedere affermarsi, nella nostra società globalizzata, una visione insulare dell’essere umano. Come se la tua vita si realizzasse solo quando realizzi le cose che ti interessano».

I classici che cosa dicono?

«Mostrano che è falso. La tua vita di essere umano può avere senso solo se sei consapevole, come dice John Donne, che appartieni a un continente più grande, l’umanità. Mentre il paradosso della nave di Teseo, raccontato da Plutarco, ci dice molto dell’identità».

Che cosa dice?

«Che l’identità non è mai statica, immobile. È un misto di vecchio e nuovo, come la nave a cui hanno cambiato tutte le assi, ormai marce. Io non faccio un discorso politico, ma culturale. In La muraglia e i libri, Borges dice che, quando costruisci i muri, non ti difendi dai nemici, bensì costruisci una pericolosa prigione in cui ti chiudi».

Propone anche, con Nietzsche, l’elogio della «filologia» e, con Rilke, quello del «difficile». Due concetti molto poco di moda.

«Un tema fondamentale. Oggi ai nostri studenti fai capire che il fast è vincente, che devi fare in fretta. Ma il fast learning uccide l’apprendimento, come il fast food uccide il cibo. Nietzsche dice: attenzione, la conoscenza ha bisogno di tempo, di filologia. Serve l’orafo della parola. Invece i ragazzi non riflettono più. E, se bocci qualcuno all’esame, dicono che fai perdere soldi all’università, perché aumentano i fuori corso. Ma io sono un vecchio professore…».

E Rilke?

«In una delle Lettere a un giovane poeta, Rilke spiega che la poesia è come un albero: deve maturare, non bisogna avere fretta. Solo lo sforzo che fai ti permette di diventare la persona che sei: questo dovremmo far capire ai nostri giovani. Le pedagogie edonistiche sono menzognere: in tutte le cose serve lo sforzo e, come dice Wittgenstein, è questo sforzo che ci rende migliori».

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