La vita di un traduttore freelance (ma anche di un freelance in generale) è mediamente più caotica della vita di un lavoratore dipendente. Il (traduttore) freelance, in base a un accordo faustiano che firma col sangue il giorno stesso in cui va dal commercialista ad aprire la partita IVA e/o invia la prima notula di pagamento, si condanna a vivere per l’eternità in una girandola di cose da fare, tutte insieme e senza dimenticarne una: fatture, preventivi, email, traduzioni, organizzazione del calendario lavorativo, planning delle vacanze e fondo vacanze relativo, profilo LinkedInTwitterFacebook, sito e blog, calendario editoriale, autorevisioni e bozze, email ai committenti e ai consulenti, senza contare tutto ciò che deve fare per, come dire, vivere (spesa bambini bollette Netflix ecc. ecc.). Il freelance è in sostanza come una donna di un metro e sessanta un po’ brilla a un concerto dei Guns n’ Roses (ogni riferimento è puramente casuale): la folla di impegni lo assedia da ogni lato, pogandogli addosso come una mandria di bufali impazziti e impedendogli continuamente di recuperare l’equilibrio.
Come sopravvivere a questo quadro a dir poco ansiogeno? Semplice, vi diranno in molti: col multitasking. Ovvero, secondo la definizione standard del fenomeno, imparando a fare più cose contemporaneamente: rispondere alle email di lavoro mentre si fanno i compiti di matematica con il bambino, conversare via chat mentre si è in riunione su Skype, fare una ricerca volante sullo smartphone mentre si guarda Alberto Angela in TV.
Non fatevi ingannare
L’idea che il multitasking sia la soluzione al problema della scarsa produttività è anche una questione generazionale: non c’è millennial che non riesca a fare seimila cose insieme. E non tutto il multitasking è negativo, del resto. Il millennial che ci spiega che si possono lavare i piatti mentre si ascolta un radiodramma horror del 1934 trasformato in podcast ci dice una cosa buona e giusta: che il cervello costretto a compiere operazioni banali, o noiose, le fa più volentieri se stimolato creativamente.
Diverso è invece il discorso del multitasking lavorativo, quello in cui diversi compiti, ugualmente impegnativi a livello mentale, si accavallano, e la nostra smania di produttività ci porta a tentare di risolverli tutti in contemporanea. La verità è che noi (traduttori) freelance siamo in gran parte ossessivi e perfezionisti, e l’occasione di chiedere a noi stessi di fare di più, di spingerci un pezzetto più avanti, di prendere due piccioni con una fava e due committenti con una email, ci sembra impagabile.
Ma posso dirvi la sincera verità? A me il multitasking fa schifo. Mi fa vomitare, letteralmente. Mi sembra una delle più grande baggianate della storia, e mi pento e mi dolgo degli anni in cui non sono riuscita a farlo mio e per questo mi sono sentita inadeguata o sbagliata. Fare venti cose insieme mi pare un’inutile spreco di energia. Sfinirmi di impegni senza dare al cervello il modo e il tempo di capire cosa stia succedendo mi sembra una prospettiva peggiore di un’intossicazione alimentare.
Il multitasking è un mito?
E non sono una luddista digitale che si sente ribelle solo perché va ai concerti rock, eh: la scienza è con me. Studi recenti hanno infatti dimostrato che, in sostanza, il multitasking (inteso come capacità di svolgere più compiti contemporaneamente ottimizzando le energie e il tempo a disposizione) non esiste. Quello che cerchiamo di fare è in realtà task-switching, ovvero l’alternarsi forsennato di compiti differenti, ed è la cosa più stressante che il nostro cervello possa subire. Bombardato di stimoli, il cervello di chi fa task-switching diventa molto meno efficiente, offrendo prestazioni peggiori in tempi più dilatati. Oddio, in teoria ci si può comunque spingere oltre questo limite e ottenere i risultati desiderati, solo che poi si stramazza al suolo come un tricheco spiaggiato. Lo insegnava anche Faust, del resto: non ottieni tutto quel che vuoi, e che non è umanamente ottenibile, senza pagare un prezzo (e lo insegna anche Axl Rose: non ti fai tutte le droghe che vuoi senza diventare grasso, che non c’entra granché ma volevo dirlo).
Come dire no al task-switching
Che fare dunque? Noi di doppioverso abbiamo deciso di aggirare il problema semplicemente rallentando: rallentare sarà anche la nostra parola d’ordine per questo 2018. Incoraggiate dai numerosi coming out di imprenditori multimilionari e noti stacanovisti che in gran numero, e sempre più spesso, raccontano come abbiano aumentato produttività e felicità lavorando meno e lavorando meglio (vedi ad esempio Arianna Huffington, che, piuttosto curiosamente, due anni dopo aver creato una testata che sfornava notizie 24 ore al giorno ed essersi schiantata sul pavimento per il troppo stress sfracellandosi la mandibola, ha deciso che lavorare 24 ore al giorno non era una buona idea per nessuno e ha cominciato a promuovere il diritto ai pisolini pomeridiani per sé e i suoi dipendenti), anche noi abbiamo stabilito che la produttività richiede ordine mentale.
Non è tutto così facile, ovvio. Viviamo (e lavoriamo) in un mondo digitale e iperconnesso, che ci chiederà quindi un grado di presenza che non può essere stabilito a priori da noi (almeno non del tutto). Che fare dunque per armarci contro la tendenza a fare tutto e a fare troppo? Ecco il nostro mini manifesto per il 2018, che speriamo sia utile anche a voi:
- Finite un compito prima di cominciarne un altro
Suonerà banale, ma imparare a resistere alla tentazione di frammentare la nostra attenzione dedicandone un pezzettino a ogni nuovo compito che ci pare importante è la chiave del successo nella discesa verso il monotasking. Non rispondere pavlovianamente agli stimoli è un’arte che si impara con il tempo: come la meditazione, richiede presenza, ripetizione, costanza. Sforzatevi ogni giorno di allungare il tempo che dedicate a una cosa sola, importante o banale che sia, come in un esercizio zen. Allenatevi a essere presenti in ciò che fate, e a fare una cosa per volta.
- Chiudete la porta (digitale)
Avete presente quei telefilm americani ambientati negli anni ’50, in cui il padre di famiglia torna a casa dal lavoro, grida: “Honey, I’m home!”, poi si toglie scarpe e cravatta e sprofonda nella poltrona a leggere il giornale? Evitare il multitasking significa anche non lavorare quando e dove non dovremmo. Una volta spento il computer nello studio, rendiamoci irraggiungibili su tablet e cellulari, mettiamo Welcome to the Jungle su Spotify e rivendichiamo il diritto di essere padri di famiglia americani in un telefilm anni ’50 (magari però aiutiamo nostra moglie a cucinare, eh).
- Accettate l’idea che non tutte le informazioni sono utili
Vi capita spesso di aprire internet per cercare un termine che vi serve per un romanzo e di ritrovarvi dopo due ore a leggere la storia della traduzione islandese di Dracula o la ricetta della pastafrolla comprendendo solo quando è troppo tardi che avete perso un pomeriggio a cincischiare (ogni riferimento ecc. ecc.)? Ecco, non fatelo più. Rinunciare al multitasking significa anche non consentire a compiti poco importanti e poco urgenti di interrompere quelli che importanti e urgenti lo sono davvero.
- A volte portare a termine un compito significa abbandonarlo
Ci sono cose che vorremmo fare, nella vita, e cose che dovremmo fare, e cose che potremmo fare. E poi ci sono le cose che non siamo destinati a fare. E va bene lo stesso. A volte non caricarci di mille impegni vuol dire passare in rassegna i 999 che già abbiamo e capire se ce n’è qualcuno a cui possiamo rinunciare senza che sia completato. Sfoltire non vuol dire sempre lasciare in piedi ciò che deve essere portato avanti: a volte vuol dire, più felicemente, lasciare in piedi solo ciò che abbiamo voglia di portare avanti.